Senza sguardo di Medusa
Di Davide Bianchi
L’intervallo, soprattutto la lunga pausa ricreativa che separa il pranzo dalla ripresa delle attività didattiche pomeridiane, è un ottimo momento per osservare da lontano e in maniera discreta le dinamiche sociali e le attività di gioco tra i bambini che in aula spontaneamente prendono vita e si sviluppano. Solitamente osservo queste pratiche e ascolto le loro conversazioni seduto al mio posto dalla cattedra, fingendo ovviamente di non prestare attenzione a ciò che fanno ed evitando che loro si accorgano del fatto che io effettivamente li stia guardando. Questo perché ho notato negli anni che lo sguardo intrusivo di una figura adulta, se percepito dai piccoli attori che inscenano teatralmente la loro ludica rappresentazione della vita, finisce per rompere quella magia e quella libera spontaneità che circolava in maniera naturale e genuina, e il loro atteggiamento, sentendosi osservati e quindi giudicati, diventa meno autentico e naturale. È un fenomeno psicologico simile a ciò che il filosofo francese Jean-Paul Sartre definiva nell’Essere e il Nulla lo “sguardo di Medusa”, ossia la sensazione di impotenza, vulnerabilità e incombente immobilità che proviamo quando ci accorgiamo in maniera improvvisa e imprevista che qualcuno ci sta effettivamente osservando, in particolare mentre siamo assorti e coinvolti a svolgere delle attività che riguardano la nostra ordinaria routine. Lo sguardo che l’altro improvvisamente e inevitabilmente ci getta addosso è, per l’appunto, uno sguardo di Medusa, cioè uno sguardo alienante, pietrificante, reificante. Ciò perché irrompe nella nostra libera e spontanea trascendenza e ci restituisce, senza possibilità di fuga, alla presa di coscienza della nostra dimensione fisica, corporea, materiale, ovvero al nostro essere ineluttabilmente esposti, inermi, fragili, incatenati in un corpo e in un’individualità irriducibile che, anche in un mondo fatto di soli specchi, solo gli altri riuscirebbero comunque a vedere integralmente. Per questa ragione credo che ogni tanto i grandi dovrebbero farsi piccoli, o almeno fingere di farlo, lasciando, nei limiti del sostenibile e del lecito, i bambini liberi di esprimersi e sperimentare nella maniera più autentica e spontanea possibile. E lasciandoli interagire nel loro poliedrico e fecondo universo fatto di simulazioni, caratterizzazioni, codici, rappresentazioni e realizzazioni, possibilmente senza le ingerenze e le intromissioni giudicanti tipiche dell’adulto. C’è molto da vedere e da imparare anche così.
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