Smarritevi nell’inglese

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Di Davide Bianchi

Èun luogo comune diffuso ritenere la lingua inglese complessivamente più semplice e ordinaria rispetto alla nostra lingua di appartenenza. L’italiano è una lingua stupefacente, sia chiaro; è la nostra casa, la nostra patria, “Heimat” direbbero i tedeschi. Tuttavia, ciò non significa che l’inglese sia da derubricare grossolanamente a lingua franca, standardizzata, il cui valore risiederebbe nell’esprimere meri rapporti di natura economico-commerciale. Niente di più falso e fuorviante. Questo stereotipo è solo parzialmente dovuto al fatto che la sintassi inglese sia, rispetto a quella italiana, forse meno articolata. In realtà, domina una presunzione etnocentrica, autoreferenziale, incline a decretare l’italiano, e in generale le lingue neolatine e romanze, come idiomi foneticamente più armonici e lessicalmente più ricchi. Lingue superiori, insomma; sublimazioni cifrate della poesia e della letteratura. Questo giudizio cela una mancanza di umiltà e di riconoscimento dell’alterità linguistica, la quale è sempre vertigine ed estraneità, abisso senza fondo (Abgrund). In pratica dipende dal fatto che l’inglese è una lingua che non conosciamo realmente e nel cui spazio logico non ci siamo mai addentrati in profondità, almeno una volta, con lo scopo di perderci. Lo smarrimento è essenziale in un percorso di ricerca. Parliamo di complessità. Il gioco si fa già duro sulla fonetica: l’inglese, essendo una lingua anche germanica, non si basa sulla corrispondenza grafia e fonema, inoltre ha 24 consonanti e 22 vocali, mentre l’italiano rispettivamente 23 e 7. A ciò si devono aggiungere gli svariati casi di omografia, parole con grafia uguale e pronuncia diversa, e di omofonia, vocaboli con uguale pronuncia ma scritte diversamente. Ma la radicale complessità della lingua inglese risiede nella semantica: essendo l’inglese una lingua sia germanica sia romanza, oltre che parlata in svariate nazioni del globo, presenta un apparato lessicale sterminato, classificandosi come l’idioma con il maggior numero di vocaboli al mondo. E infine, il colpo di grazia: l’opacità semantica con la quale i non anglofoni devono drammaticamente misurarsi, l’intricato e sconcertante dedalo di casi di sinonimia, omonimia e polisemia tra vocaboli che l’inglese contiene non consente letture superficiali e semplificate. Ci costringe a lavorare duramente, e a pensare, con un’inusitata radicalità, anche alla nostra identità linguistico-culturale. Ancora una volta, è il volto dell’altro a rivelarmi ciò che sono.

biadav@libero.it

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