Un “altro” Gambara che non va dimenticato
La riscoperta. Dopo Uberto, Cesare e Maffeo Gambara, vescovi della Diocesi di Tortona, conosciamo la figura di Gianfrancesco, vescovo di Viterbo e cardinale, uomo di carità e di raffinata cultura
DI DON MAURIZIO CERIANI
L a famiglia Gambara ha legato indissolubilmente il suo nome alla storia della Diocesi di Tortona, che fu retta ininterrottamente per quasi un secolo da tre vescovi della nobile casata bresciana: Uberto, Cesare e Maffeo. Uno di questi, Uberto, è finora l’unico successore di san Marziano ad aver rivestito la porpora cardinalizia durante l’episcopato tortonese. Tuttavia, c’è un altro Gambara, vescovo e cardinale, che non andrebbe obliato nei nostri ricordi, perché nei confronti di Uberto fu un autentico “cardinal nepote” cresciuto alla scuola dei suoi insegnamenti. Inoltre fu uno dei più influenti e stimati consiglieri di san Pio V, nonché mentore del nipote Maffeo, ultimo dei Gambara a sedere sulla cattedra tortonese. Si tratta di Giovanni Francesco o Gianfrancesco Gambara, che fu vescovo di Viterbo e cardinale.
Rampollo di una nobile famiglia rinascimentale
Giovanni Francesco nacque nel 1533 da Virginia Pallavicini, vedova di Ranuccio Farnese, e da Brunoro II conte di Pralboino, nobile fedele all’imperatore Massimiliano I e poi maestro di campo nell’esercito di Carlo V, fratello minore della poetessa Veronica e del cardinal Uberto, destinati entrambi ad avere una notevole influenza nella formazione del giovane nipote. Giovanni Francesco fece sue e mantenne inalterate tutte le tradizioni provenienti dall’ambito familiare, incarnate dal padre e dagli zii: i legami con la famiglia imperiale e lo spirito militare, il gusto estetico, la carriera cardinalizia. Possiamo dire che sin dall’inizio “studiò da cardinale” sotto l’indirizzo attento dello zio Uberto, grazie al quale divenne, all’età di quindici anni, prevosto degli umiliati di S. Maria alle Grazie di Palazzolo ed ebbe poi a Cremona la pingue abbazia benedettina di S. Lorenzo a cui si unì, nel 1549, la prepositura di Verola. Amante degli studi, si laureò in utroque iure. Passando attraverso le università di Padova, Bologna e Perugia. Gli antichi rapporti della sua famiglia con l’Impero gli consentirono facile udienza presso Carlo V, alla corte del quale restò circa un anno, per giungere poi a Roma come uno “familiare” di Giulio III dopo la morte di Uberto, avvenuta nel 1549 quando Gianfrancesco aveva solo sedici anni. Uberto aveva spianata la via per l’accesso dei suoi nipoti all’alta gerarchia ecclesiastica. Aveva già fatto nominare Cesare vescovo di Tortona, dopo aver lasciato lui stesso quella Diocesi tenuta per vent’anni. Come per diritto di successione familiare, gli sarebbe succeduto nel 1592 Maffeo, il terzo Gambara assegnato alla cattedra di San Marziano. Giovanni Francesco divenne cardinale a ventotto anni e anche Girolamo da Correggio, un altro nipote di Uberto, figlio della sorella Veronica, raggiunse la porpora cardinalizia. Durante i pontificati di Giulio III e Paolo IV Gianfrancesco Gambara svolse un servizio nella Curia romana, tenendosi un po’ sotto traccia, prima di assumere, con Pio IV, un ruolo da protagonista, divenendo cardinale diacono il 21 febbraio 1561, e poco dopo cardinale presbitero.
Un delicato passaggio della storia della Chiesa
La nomina cardinalizia di Giovanni Francesco avvenne nel delicato momento della ripresa delle trattative per la riapertura del Concilio di Trento, che fu pure turbato dal processo contro il cardinale Carlo Carafa e i suoi familiari, conclusosi con la condanna a morte dei nipoti di Paolo IV, eseguita il 4 marzo 1561. Era in corso da diversi anni lo scontro tra “moderati” e “intransigenti”, che aveva visto alcuni momenti drammatici, come ad esempio il processo per eresia al cardinale Giovanni Morone, una delle anime del Concilio tridentino, assolto nel 1559, e il già citato caso del cardinal Carafa. Nell’aspro confronto tra le due parti, che proseguì anche nel pontificato di Pio IV, la posizione del Gambara fu sempre aderente, anche durante i lavori dell’ultima fase del Concilio di Trento, a quella del cardinale Michele Ghislieri, il futuro Pio V, campione del partito intransigente, e avversa al cardinal Morone, anche per la vicinanza di quest’ultimo alla Francia, storica nemica dell’Impero. Grande elettore di Pio V, insieme a san Carlo Borromeo, nel conclave del 1565-66, il Gambara fu da subito tra i più intimi e ascoltati consiglieri del nuovo Pontefice; Pio V lo volle nel tribunale dell’Inquisizione, dove restò ininterrottamente fino al pontificato di Gregorio XIII, come uno dei quattro giudici del Santo Uffizio preposti alla repressione dell’eresia. Il ruolo più incisivo di Giovanni Francesco Gambara come inquisitore si svolse negli anni 1566-70, quando fu protagonista nei processi contro Pietro Carnesecchi (1566-67), Niccolò Franco (1568-70) e l’ex governatore di Roma e procuratore fiscale Pallantieri (1569-71), tutti conclusi con l’esecuzione degli inquisiti. Il cardinale Gambara applicò la stessa integrità di comportamento in un altro spinoso procedimento, quello contro l’arcivescovo di Toledo e primate di Spagna Bartolomé Carranza, autore delle controverse Spiegazioni del catechismo, la cui vicenda– iniziata nel 1559 – terminò con la sentenza del 14 aprile 1576, letta davanti a Gregorio XIII. Alla morte del Carranza, avvenuta subito dopo l’abiura impostagli dal Santo Uffizio, il Gambara si adoperò fortemente perché la sede primaziale di Toledo fosse affidata all’accusatore Gaspare de Quiroga, riuscendo sia in questo intento sia in quello di farlo entrare nel Sacro Collegio.
Viterbo e Bagnaia
Il 7 ottobre 1576 Giovanni Francesco Gambara era nominato da Pio V vescovo di Viterbo e fu consacrato dal Papa stesso il successivo 13 ottobre. La scelta della cattedra episcopale di Viterbo manifestò la chiara intenzione di Pio V di ristabilire l’ordine in una Diocesi chiave, già sede pontificia per decenni e luogo di conclavi, che aveva visto l’incisiva presenza del movimento evangelico denominato “Ecclesia Viterbiensis” in odore di eresia. Nel 1540, alla nomina del cardinale inglese Reginald Pole amministratore del Patrimonio di San Pietro e al suo conseguente trasferimento a Viterbo come vescovo, si raccolsero attorno a lui i reduci del circolo napoletano di Juan de Valdés, per lo più ecclesiastici di rango che, accogliendo alcune delle idee luterane ma senza voler staccarsi da Roma, premevano per una radicale riforma della Chiesa. Del gruppo facevano parte anche il cardinale Giovanni Morone, le gentildonne Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, che divennero le più grandi promotrici del movimento in Italia e il grande artista Michelangelo Buonarroti. L’attività pastorale di Gambara a Viterbo, che durò fino al 1576, ebbe come obiettivo il ristabilimento pieno dell’ortodossia tridentina ed ebbe come momento centrale il sinodo del 25 novembre 1573, e la fondazione del seminario diocesano. Durante l’episcopato viterbese emerse anche in pienezza il tratto di principe rinascimentale e il gusto estetico ereditato dalla zia Veronica, entrambi espletati nel completamento della villa Lante a Bagnaia e nella costruzione dello splendido giardino all’italiana. Il Gambara volle quella realizzazione nella zona dei possedimenti dei Farnese, con i quali era imparentato, e nei pressi di Caprarola, sede del loro palazzo in quel momento in costruzione, in una simpatica competizione artistica con il “gran cardinale” Alessandro Farnese, che lo portò a ostentare stemmi ed emblemi della propria famiglia, come nessun altro Gambara aveva fatto così vistosamente; anche la facciata del duomo di Viterbo e in seguito quello di Tuscania portano incisi il nome del cardinale vescovo. La villa Lante, che era stata iniziata da Ottaviano Riario, assunse l’aspetto odierno con il progetto di Giovanni Francesco, ovvero con l’aggiunta della palazzina Gambara, del grande giardino con i giochi d’acqua e con le opere degli Zuccari e di Raffaellino da Reggio. I lavori durarono dal 1566 al 1578, anno in cui la villa fu visitata da Gregorio XIII. Uguale magnificenza fu profusa dal Gambara per il santuario della Madonna della Quercia, sulla strada che unisce Viterbo a Bagnaia, terminato da Antonio da Sangallo e consacrato dal cardinale l’8 aprile 1577, l’anno successivo alla sua formale dimissione da vescovo di Viterbo, attestando la sua continuità effettiva e affettiva alla guida della Diocesi viterbese: fino al 1580, quando lasciò definitivamente Bagnaia per trasferirsi ad Albano, sua nuova sede vescovile.
Uomo di carità
La personalità di Giovanni Francesco Gambara sarebbe incompleta senza il suo forte impegno di carità, che caratterizzò costantemente la sua attività pastorale e giudiziaria. Nel 1566 fu nominato tra i dodici “primari vires” per l’assistenza ai malati durante l’epidemia romana di peste; a Viterbo si prodigò per creare gli Ospedali Riuniti. A Roma negli anni della sua grande fortuna in Curia fondò la Compagnia dei Bresciani – 6 novembre 1569 – oggi Opera pia dei Bresciani, con l’annessa chiesa edificata in gran parte grazie all’esborso di denaro proprio. La Compagnia, posta sotto il patronato dei santi Faustino e Giovita, assolse compiti religiosi e di assistenza in favore della “nazione” bresciana a Roma ovvero dei nativi di Brescia e delle loro due generazioni successive. Protagonista anche del conclave che elesse Sisto V nel 1585, Gambara morì a Roma due anni dopo, il 5 maggio 1587. Composto il suo corpo nella chiesa di S. Maria del Popolo fu poi, secondo i suoi desideri, tumulato nella chiesa della Madonna della Quercia di Viterbo. Erede dei suoi beni nel bresciano fu il nipote Maffeo Gambara vescovo di Tortona.