«Una diagonale e un lungolinea, mi raccomando, in campo!»

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L’intervista. È di Broni, ha vissuto a Voghera e abita a Pavia, Emanuela Longa, medico della Nazionale femminile di pallavolo e della Nazionale paralimpica, ha vinto l’oro a Parigi. Qui ci racconta la sua avventura a cinque cerchi

DI MARCO REZZANI

Il desiderio di quella ragazzina di 14 anni che guardando le Olimpiadi di Atlanta sognava un giorno di esserci, si è avverato. Abbiamo ancora tutti nel cuore la gioia che la Nazionale di pallavolo femminile ha regalato a un intero Paese domenica 11 agosto vincendo l’oro olimpico, in una finale a senso unico contro gli Stati Uniti, battuti 3 a 0. Con quel podio l’Italia, all’ora di pranzo, con milioni di connazionali incollati alla televisione, scriveva la storia. E sul quel podio c’era anche una donna di casa nostra: Emanuela Longa, medico della Nazionale. Classe 1982, nata a Broni, trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Voghera e oggi vive a Pavia. Si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università pavese e consegue la Specializzazione in Medicina dello Sport all’Università di Brescia. Sposata da dieci anni con Filippo, professore associato presso la facoltà di Chimica di Pavia, ha due figli: Francesco di 8 anni («grande sportivo» – fa notare la mamma) ed Elena, di 10 mesi. Oltre alla Nazionale, segue da tempo le atlete paralimpiche, il suo orgoglio. Noi l’abbiamo intervistata e ci siamo fatti raccontare la sua avventura a cinque cerchi nella capitale francese.

Dottoressa Longa, è nata prima la passione per la Medicina o quella per lo sport?

«Prima sicuramente la passione per lo sport. Da piccola praticavo il nuoto e a 13 anni ho iniziato la mia avventura nel mondo degli sport di squadra: il basket a scuola con cui ho partecipato anche ai Mondiali studenteschi a Gerusalemme e la pallavolo che ho proseguito nel tempo prima a Voghera e da lì fino alla serie B a Rivanazzano e in provincia di Pavia. La passione per la Medicina è nata fin da subito con l’idea di poter aiutare le persone a stare meglio e la Medicina dello Sport è stata una scelta obbligata perché mi permette di educare gli altri allo sport e di arrivare a lavorare con sportivi di alto livello».

Poi come ha proseguito la sua carriera?

«Dopo la laurea ho conseguito la Specializzazione in Medicina dello Sport, unendo l’attività di medico a quella di ricerca in Fisiologia per capire le differenze intermuscolari tra soggetti differenti, nel fantastico mondo che è la plasticità muscolare, cioè la capacità unica che ha il muscolo di adattarsi velocemente a tutte le condizioni con cui viene a contatto. Nel frattempo, durante la specializzazione, ho conosciuto la dottoressa Antonella Ferrario che rappresenta per me il mentore nel mondo della Traumatologia dello Sport e con lei ho iniziato a vedere sempre più atleti – nel suo caso spesso dell’atletica leggera, in quanto medico Fidal (Federazione Italiana di Atletica Leggera) – e a partecipare ad alcuni eventi nazionali o internazionali come medico o come spettatrice, potendomi così appassionare a una realtà che mi interessava sempre di più».

Da quando è nello staff della Nazionale italiana di pallavolo? Fu lo stesso c.t. Julio Velasco a volerla nel team o sbaglio?

«Ho iniziato a collaborare con la Federazione Pallavolo nel 2019 come medico della Nazionale Maschile di Sitting Volley (pallavolo paralimpica), fino a settembre 2020 quando sono passata a quella femminile con cui ho partecipato alle Paralimpiadi di Tokyo e con cui ho vinto il titolo Europeo nel 2023. La prima chiamata per la Nazionale Seniores Femminile è arrivata dal responsabile sanitario della Federazione a gennaio 2023, ma in quel momento non ho accettato. Quindi un mese dopo la nascita della mia bambina a novembre 2023 è arrivata una nuova chiamata perché Velasco voleva costituire uno staff che potesse essere il più possibile al femminile e hanno dunque pensato di nuovo a me. Dopo un consulto in famiglia, visto l’impegno che si prospettava, ho deciso di accettare e dall’8 aprile ho iniziato il lavoro con la seniores».

Concretamente, come si svolge il suo lavoro all’interno della Federazione?

«Io sono il medico sempre presente nel gruppo, per semplificare, una sorta di medico di base della squadra, disponibile 24 ore su 24. Inoltre, insieme ai fisioterapisti, programmo le terapie fisiche per le atlete a seconda di priorità e necessità e ci confrontiamo con lo staff tecnico per evitare sovraccarichi e con il preparatore per i lavori di prevenzione. In più tengo i rapporti con i medici delle società di provenienza delle atlete che vogliono giustamente essere informati sulla loro salute».

È tornata da poco da Parigi. Che giorni sono stati? Cosa vuol dire vivere un’Olimpiade da vicino, da dentro?

«Sono stati giorni molto intensi, pieni di emozioni. Essere dentro un’Olimpiade mi ha permesso di vedere quante persone ruotano intorno a un evento di questo calibro e come tutti operano per raggiungere al meglio il loro obiettivo, non solo gli atleti e gli staff, ma anche tutto il resto. Però non sono mai mancati buon umore e sorrisi anche se ogni tanto, com’è giusto che sia, c’era un po’ di nostalgia di casa. Parigi era davvero attrezzata al meglio e noi abbiamo vissuto tutto senza alcun intoppo».

Ed infine la gioia di un oro. Cosa ricorda di quella partita e di quel podio?

«Ovviamente dopo l’ultimo punto si è persa un po’ di lucidità, tant’è vero che ho riguardato l’ultimo set 4 volte, ma ricordo una gioia immensa, la voglia di abbracciare tutti coloro con cui ho condiviso questa avventura e che hanno rappresentato la mia casa in questi cinque mesi. Su tutto la sensazione che fosse successo qualcosa di grande, ma da un certo punto di vista anche di doveroso per il lavoro che avevamo fatto durante la stagione».

Lei segue anche le atlete paralimpiche. Cosa significa lavorare con loro? Che messaggio hanno da dare questi uomini e queste donne a noi, spesso abituati a dare tutto per scontato, e soprattutto ai giovani?

«Con loro ho imparato che la frase “essere sé stessi” non è un modo di dire; ognuno di noi è unico e loro sono l’immagine dell’unicità dell’essere umano e della capacità di raggiungere obiettivi incredibili con il lavoro, la dedizione e l’essere sé stessi».

Mettiamo a confronto una vittoria olimpica e una paralimpica. Cosa fa la differenza?

«Sono due cose diverse. Questa vittoria olimpica in particolare è un evento storico, è il sogno di me ragazzina che guardavo Atlanta 1996 e pensavo di essere anch’io un giorno alle Olimpiadi; è guardare negli occhi quelle 13 ragazze straordinarie che hanno vinto in campo e sentire anche solo in millesima parte di aver contribuito al loro successo. Quando vinci con le atlete paralimpiche è una vittoria più intima e personale, di un Movimento che sta crescendo, senza essere professionistico. È la vittoria di ragazze che ogni giorno ritagliano parte del loro tempo per l’allenamento superando mille barriere. Io sono fiera di essere al loro fianco».

Un aneddoto dell’esperienza parigina che vuole condividere con i nostri lettori…?

«Prima delle partite dopo i gironi, per scherzare alla fine dell’allenamento, mi sono fatta alzare due palloni e siccome abbiamo vinto ho dovuto farlo prima di ogni partita fino alla finale, con Julio Velasco che mi diceva: “Una diagonale e un lungolinea, mi raccomando, in campo!”. E ovviamente l’ho sempre fatto, in campo!».

(Nella foto di copertina: Emanuela Longa con la Nazionale Paralimpica)

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