«Una nuova pagina si è aperta davanti a noi»
La Diocesi del futuro. Da aprile a settembre il vescovo ha incontrato nei 10 vicariati i Consigli pastorali vicariali, i referenti e i collaboratori parrocchiali, da Varzi a Castellar Guidobono. E ha illustrato, in quattro punti, quale sarà il cammino della nostra Chiesa, partendo dal Risorto sino ad arrivare al numero esiguo di sacerdoti e alle comunità pastorali che diventeranno le nuove comunità parrocchiali. È un progetto che qui vi riproponiamo perché tutti siamo corresponsabili
DI MONS. GUIDO MARINI, VESCOVO
Dal 19 aprile ho iniziato a incontrare, nei 10 vicariati della Diocesi, i Consigli pastorali insieme ai collaboratori parrocchiali più stretti. Desidero esprimere un profondo ringraziamento per ciò che fate, per lo zelo, la generosità e la passione interiore con cui condividete da vicino la vita e il ministero dei sacerdoti, e soprattutto la vita e la missione della Chiesa di annunciare il Vangelo in questo nostro tempo e in questa nostra Diocesi. Intendo parlarvi cuore a cuore, come pastore che dal proprio cuore si rivolge al cuore del suo popolo. Il cardinale John Henry Newman nel suo stemma aveva il motto: “Cor ad cor loquitur”, ovvero “il cuore parla al cuore”. Il mio desiderio è proprio quello di parlare al vostro cuore di una tematica che ritengo importante trattare con i presbiteri, con i diaconi e condividere con tutti, poiché si tratta di un cammino nel quale siamo tutti coinvolti e chiamati a essere protagonisti, pur con responsabilità e servizi diversi, ma tutti allo stesso modo, in comunione.
Il tema è il cammino della nostra Chiesa. Un cammino certamente tracciato e dal quale non si può tornare indietro, nel quale siamo chiamati a impegnarci in generale come Chiesa locale e poi all’interno dei singoli vicariati tenendo conto delle particolarità del territorio, della storia, di quanto fatto sino a oggi. Espongo il tema in quattro punti che sono strettamente intrecciati e derivano l’uno dall’altro. Se i primi tre sono di carattere più generale e costituiscono il fondamento e la radice, il quarto è più pratico e scaturisce dagli altri tre, poiché tutti ci portano al cuore di quello che viviamo e di quello che siamo chiamati a vivere come Chiesa.
La Chiesa del Crocifisso Risorto
Nel tempo Pasquale, un tempo molto bello nel quale ci è dato di vivere e rivivere il mistero della Pasqua, ripetiamo tante volte che il Signore è risorto. E noi continuiamo a ripeterlo anche oggi: il Signore è risorto, non è morto, non è un capitolo come tanti della storia, non è un ricordo che non ha a che fare con il tempo presente. Egli è vivo ed è qui, in mezzo a noi. Questo è il cuore e il centro della nostra fede e ritengo importante ribadirlo, poiché, a volte, viviamo come se ciò non fosse vero e come se la nostra fede non trovasse in questo la sorgente, la vita, il senso. Il Signore Gesù, che è morto per noi, è risorto, è vivente e cammina con noi ogni giorno, fino alla fine del mondo, come nostro compagno di strada e come nostro salvatore. In un incontro di vicariato, una signora mi ha chiesto: «Non le sembra che, a volte, nelle nostre comunità si viva come se fossimo rimasti fermi al Venerdì Santo?». E io le ho risposto: «È vero, sì, ha ragione». Noi, spesso, viviamo come se in realtà ci fossimo fermati al Venerdì Santo, come se il Signore non fosse un vivente qui con noi, come se ciò in cui crediamo fosse semplicemente un’idea, una norma di comportamento, un sistema morale, una filosofia, ma non un incontro, un incontro di vita che ci coinvolge interamente: mente, cuore, affetti, progetti, stili concreti, scelte, decisioni, amore.
Qualche volta, durante le nostre celebrazioni eucaristiche domenicali, guardando i volti dei presenti, ascoltando il modo in cui preghiamo e osservando anche il modo in cui stiamo in relazione tra di noi, mi domando: «Ma questa è una comunità che vive la presenza del Risorto? Questa è una comunità che percepisce che la sua forza, la sua gioia, la sua speranza, il tutto della sua vita è il Signore Gesù che è risorto, vivo, che è la salvezza, il presente, il passato e il futuro della nostra storia e della nostra vita?».
Mi pare sia un dubbio che non può non interrogarci. La Chiesa è la comunità del Crocifisso Risorto. La Chiesa, con tutte le sue pecche umane, che sono anche le nostre, è capace di presentarsi al mondo in una logica di speranza e di fiducia, di entusiasmo, di gioia di comunione, perché c’è Lui presente, vivo in mezzo a noi.
Il Signore è risorto! Che non siano soltanto parole, un annuncio vago, ma che sia ciò in cui fermamente crediamo e alla luce di cui viviamo! Ecco, dunque, il primo punto su cui desidero richiamarvi per ritrovare il centro e il cuore della nostra vita di fede, perché la vita di fede è un incontro quotidiano con Colui che è il Figlio di Dio, fatto uomo per noi, risorto da morte, nostro Salvatore, Redentore, col quale siamo coinvolti interamente in tutto ciò che siamo, in tutto ciò che facciamo. È questa la straordinaria bellezza della nostra fede.
La Chiesa incontra il Suo Signore Risorto
Come ho accennato, la Chiesa è la comunità del Risorto. E dove la Chiesa fa esperienza primordiale, sorgiva, fondamentale del Risorto?
Faccio memoria di una pagina del Vangelo di san Luca che tutti conosciamo molto bene. È la pagina nella quale l’evangelista racconta ciò che accadde all’indomani della Pasqua, sulla strada che portava da Gerusalemme a Emmaus. Luca scrive questa pagina per rispondere, attraverso un fatto storico, a una domanda precisa che gli viene rivolta. È la domanda di una generazione cristiana che non ha visto Gesù nel suo pellegrinaggio terreno, non l’ha visto nelle apparizioni il giorno dopo la Pasqua, non ha vissuto l’esperienza apostolica e dei primi discepoli. E si chiede: «Per noi qual è il luogo dell’incontro con il Risorto? Dove Lo incontriamo; quando Lo vediamo? Dove Lo ascoltiamo; dove Lo tocchiamo? In che modo Lui è presente alla nostra vita?».
Questa è la grande domanda anche di tutti noi, di ogni generazione cristiana. San Luca, per rispondere, racconta appunto ciò che accade a quei due giovani in cammino verso Emmaus. Molto sinteticamente, se ci soffermiamo con attenzione a considerare i diversi passaggi che caratterizzano il cammino di questi due ragazzi, ci accorgiamo che san Luca sta descrivendo i diversi passaggi di una Messa cioè della celebrazione eucaristica.
Il racconto evangelico dei discepoli di Emmaus
Un primo passaggio del racconto. I ragazzi sono sconvolti, vivono la delusione di ciò che è capitato loro a Gerusalemme, non riescono più a capire che cosa sta avvenendo attorno. “Avevano sperato”: così dice il Vangelo. È una situazione di grande delusione perché dal Signore si aspettavano altro. Ecco: questa è la descrizione di ciò che accade quando noi entriamo in chiesa per partecipare alla Messa. Vi entriamo col bagaglio della nostra vita quotidiana che spesso si è appesantita, nella quale abbiamo fatto fatica a riconoscere il Signore presente, a volte con una delusione che ci portiamo dentro, insomma, con una distanza rispetto al Signore. La pagina del Vangelo, pertanto, descrive l’inizio di una celebrazione eucaristica e, mentre entriamo a celebrare i misteri del Signore, la quotidianità ci accompagna con quel bagaglio di pesantezza, a volte anche di peccato, di lontananza da Dio e di sofferenza.
Poi, che cosa accade? Ecco il secondo passaggio del racconto. Un viandante sconosciuto si accosta ai due giovani e comincia a entrare in dialogo con loro. Entra in dialogo e, a un certo punto, dopo averli ascoltati e sentiti delusi, rivolge loro la parola illuminando la loro vita concreta, di ogni giorno; una parola che dona una luce nuova, una capacità nuova di interpretare i fatti della loro vita. Ciò che qui è descritto non è, forse, la liturgia della Parola? È il momento della Messa in cui il Signore ci parla, illuminandoci la vita, aiutandoci a rileggere e a riformulare i nostri giudizi sul percorso che abbiamo fatto e che stiamo facendo alla luce del mistero pasquale, della fede.
Segue un terzo passaggio. A un tratto Gesù sembra allontanarsi, ma i due ragazzi dicono: «No, rimani con noi!». E Gesù rimane, entra con loro in una stanza e lì compie il gesto di spezzare il pane e benedirlo. E questo, così descritto, non è il momento della liturgia eucaristica? Quando non soltanto il Signore illumina la vita con la sua parola ma, addirittura, vuole condividere la sua vita con la nostra, attraverso il suo corpo vero e il suo sangue vero, dandoci sé stesso.
I due giovani – siamo al quarto passaggio del racconto di san Luca – ricordano ciò che è accaduto, sentono il cuore che arde, ritornano sui loro passi pieni di entusiasmo e di gioia e vanno a raccontare a tutti ciò che hanno vissuto. Ciò che qui viene descritto non corrisponde a quell’“andate” che caratterizza la conclusione di una celebrazione? Ma non come saluto – «Ciao, ci rivediamo alla prossima»– ma come eco di quell’“andate” missionario che il Signore ci ha lasciato e ha lasciato alla sua Chiesa come un imperativo permanente, che è scritto dentro il cuore della Chiesa e il cuore di ciascuno di noi.
Ecco i quattro grandi momenti della celebrazione che sono descritti attraverso il racconto dei discepoli di Emmaus. Ed ecco la risposta di san Luca alla generazione cristiana che gli chiedeva: «Ma noi oggi come lo incontriamo il Risorto?»: nella celebrazione eucaristica!
Lì la comunità incontra il Risorto, lo incontra come Colui che ascolta il nostro cuore malato e si fa consolazione, perdono, misericordia.
Lì il Signore risorto parla e rivolge la sua parola, parla di vita, di verità, di amore, di salvezza. E poi lì la comunità non soltanto Lo incontra ma, addirittura, vive un’esperienza di comunione di vita, perché riceve la sua stessa vita nel suo corpo, nel suo sangue, nella sua presenza vera. E riceve il suo mandato che dice: «Adesso vai e portami in mezzo al mondo. Vai!». Lì, nella celebrazione eucaristica, si realizza l’incontro col Risorto che poi permette a quella comunità cristiana e ai singoli membri di quella comunità cristiana di continuare a incontrarLo nella quotidianità della vita, perché ha imparato dove il Signore si rende presente e come si rende presente, la maniera in cui è Egli è vivo, in mezzo alla sua comunità.
Capiamo allora perché il Concilio Vaticano II definisca la celebrazione eucaristica “la fonte e il culmine della vita della Chiesa e della vita cristiana”. Senza celebrazione eucaristica non c’è l’incontro con il Risorto e senza l’incontro con il Risorto non c’è comunità cristiana. Ed ecco perché i primi martiri potevano obiettare all’autorità romana, che voleva imporre di non radunarsi per la celebrazione eucaristica: «No, questo non possiamo farlo, perché senza Eucaristia, senza domenica, non possiamo vivere». Certo che non potevano vivere! Perché non avrebbero potuto incontrarsi con il Risorto, presente, vivo nella loro vita, non avrebbero potuto andare alla sorgente di quell’incontro quotidiano che è il senso della vita cristiana: Lui, presente e vivo, con noi e per noi.
La celebrazione eucaristica dona forma alla vita cristiana
Ora, sviluppando ancora questo secondo punto, che è fondamentale anche per ciò che dirò dopo, vorrei trarre 5 piccole conseguenze, che spiegano come l’Eucaristia sia la forma della vita cristiana. Non c’è vita cristiana, infatti, che non trovi la propria forma, la propria ispirazione, il proprio contenuto nella celebrazione dell’Eucaristia.
Prima conseguenza. Attraverso l’Eucaristia, la celebrazione, noi impariamo e facciamo memoria, continuamente, del fatto che la vita della fede, come abbiamo già sottolineato, è un incontro a tu per tu, è un incontro di sguardi – il nostro e quello del Signore –, è un incontro di cuori – il nostro e quello del Signore –, è un incontro di voci – la nostra e quella del Signore –, è un incontro di vite – la nostra e quella del Signore –, è un incontro di amore che trasforma. Questo è la vita cristiana; e dall’Eucaristia noi ogni volta lo impariamo nuovamente, ne facciamo memoria e rispolveriamo – se così possiamo dire ciò che costituisce il cuore dell’esperienza della fede.
Seconda conseguenza. La vita cristiana è una vita di ascolto del Signore che parla, perché la vita cristiana è una continua, desiderata e crescente adesione del nostro modo di pensare e giudicare, di affrontare la quotidianità, alla luce della volontà e della parola del Signore. Se, dunque, la vita cristiana è un incontro con il Risorto che è vivo, la vita cristiana è un ascolto continuo di Lui che ci rivolge la sua parola che è verità, luce, discernimento, forza per il cammino concreto della nostra vita; e perché noi possiamo essere tutti e ciascuno un verbo che si fa carne di nuovo nella vita quotidiana. L’incarnazione, infatti, non è qualcosa che è avvenuto soltanto una volta. L’incarnazione deve rinnovarsi continuamente nella nostra vita, attraverso una parola che si fa carne perché ascoltata, custodita, elaborata, fatta diventare luce e forza del cammino quotidiano.
Terza conseguenza. La comunione tra noi. Perché là dove c’è il Risorto e là dove viene comunicata a tutti un’unica vita, non ci può non essere una comunione. Le nostre comunità imparano, nella celebrazione eucaristica, la verità della comunione, dell’essere un cuor solo, un corpo solo, un’anima sola, perché tutti noi siamo accomunati dalla stessa identica vita, la vita di Dio che ci è donata. E imparandolo lì, poi, avvertiamo il richiamo, la chiamata, la vocazione a fare in modo che questa comunione innervi la quotidianità. Anche se non siamo fisicamente insieme, siamo sempre un cuor solo, un’anima sola, una vita sola, un corpo solo perché ci apparteniamo reciprocamente, in questa Vita che scorre, comune, dentro di noi. L’Eucaristia, dunque, è forma della vita cristiana perché forma la comunione; e non c’è una comunità cristiana senza comunione, non c’è comunità cristiana senza carità, non c’è comunità cristiana senza avvertire che siamo parte di una sola e unica famiglia.
Quarta conseguenza. Nell’Eucaristia noi riceviamo il corpo e il sangue del Signore. Allora capiamo che la vita cristiana è un crescere continuamente in quella parola che Paolo usa nelle sue lettere: “Per me il vivere è Cristo”. Attraverso la celebrazione eucaristica apprendiamo e viviamo questa realtà: una crescita continua, dentro di noi, della vita di Cristo. La nostra vita di fede è autentica nella misura in cui questa crescita si realizza ogni giorno, chiamiamola santità, chiamiamola discepolato, chiamiamola inserimento nel Signore – fino a quando giungerà a maturità nell’ultimo giorno della vita, in paradiso. Maturità di che cosa? La vita di Cristo in noi. La vita cristiana è un cammino che non si ferma mai, è un percorso di crescita che non si arresta mai, è un desiderio che non trova mai un completamento, perché rimane continuamente ravvivato dalla tensione verso un più che è dentro di noi e che si chiama Gesù Cristo.
Quinta conseguenza. Infine, nell’Eucaristia impariamo che la vita cristiana è un rendimento di grazie gioioso ed entusiasta. Eucaristia significa “rendimento di grazie” perché nell’Eucaristia noi siamo davanti a Dio per dire grazie di ciò che Egli è, di ciò che Egli ha fatto per noi, perché il suo amore accompagna la nostra vita, perché Egli ci ha salvato dalla morte, perché con la sua misericordia infinita ci ha strappato dalla miseria e dal peccato, perché ha dato un senso compiuto al nostro cammino terreno, perché il paradiso sarà aperto per noi. L’Eucaristia ci aiuta a concepire la vita cristiana come un rendimento di grazie gioioso ed entusiasta. Questa è la prima cosa, insieme alle altre, che impariamo a ogni celebrazione eucaristica.
E, allora, usando un’immagine che in qualche circostanza ripropongo, “se l’Eucaristia è la vita cristiana in boccio, la vita cristiana è l’Eucaristia sbocciata”. Non c’è vita cristiana che non sia eucaristica, non c’è comunità cristiana che non sia comunità eucaristica perché non c’è vita cristiana e non c’è comunità eucaristica che non partano dal Risorto presente, vivo, operante, nella vita personale e comunitaria.
Il sacerdozio ministeriale e la Chiesa
Ciò che ho detto ci fa capire il motivo per cui la preghiera per le vocazioni al presbiterato non può non essere una supplica costante della comunità cristiana. Senza sacerdozio ministeriale – nel disegno di Dio sulla sua Chiesa e quindi sulla salvezza del mondo – non c’è Eucaristia. Senza Eucaristia, non c’è la Chiesa, senza Chiesa non c’è la comunità del Risorto e l’incontro con Lui. Una comunità cristiana che riconosce la propria identità e si vede come comunità cristiana del Risorto, non può non avvertire l’esigenza costante di preghiera per le vocazioni, che non significa solo una breve preghiera recitata nelle intenzioni della Messa ogni tanto. Deve esprimersi piuttosto in una supplica permanente, che nasce da un cuore che sa, ha capito, avverte che senza sacerdozio non c’è Eucaristia, non c’è Chiesa, non c’è incontro con il Risorto, nel tempo presente della vita.
Ma, se è importante questo, è altrettanto importante la stima che dobbiamo avere per il sacerdozio. La stima significa che non basta pregare, non basta neppure dire: «Speriamo e preghiamo perché ci siano sacerdoti». E significa anche dire: «Preghiamo e speriamo perché un sacerdote sorga nella nostra comunità, sorga nella nostra famiglia, sorga lì, dove io vivo, sorga nella mia vita». Non è una comunità cristiana viva quella nella quale, nel momento in cui un giovane avverte la chiamata del Signore, si dice: «Che disgrazia!». La preghiera non basta! La preghiera deve accompagnarsi alla stima della vocazione sacerdotale che si traduce in un’accoglienza gioiosa di una chiamata al presbiterato.
Una comunità cristiana viva sa coltivare i germi di vocazione. Su questo dobbiamo camminare. Si sente dire, a volte: «Ci manda il parroco? Non possiamo chiudere questa chiesa!». E allora viene da chiedere: «Da dove viene un sacerdote? Nella vostra comunità avete coltivato il desiderio, l’apprezzamento, la preghiera per le vocazioni? Avvertite l’amore per i presbiteri come qualcosa che ha a che fare con la vita di fede?».
Una comunità cristiana viva ama davvero i sacerdoti, prega davvero per i sacerdoti, accoglie davvero le vocazioni al sacerdozio e le sa anche coltivare con cura.
C’è poi anche l’aspetto dell’aiuto, della collaborazione, della vicinanza reciproca. Come sarebbe bello se una comunità cristiana invitasse il suo sacerdote a dedicare un po’ di tempo alla sua preghiera personale e a stare davanti al Signore!
Il cammino della nostra Diocesi
Il “però” di Dio
Ed ecco il quarto punto di questa concatenazione di tematiche che si intrecciano l’una con l’altra in modo conseguente. Ci è capitato di ascoltare, durante la Messa, la pagina degli Atti degli Apostoli nella quale san Luca racconta ciò che accade a Gerusalemme agli inizi del cammino della Chiesa. Egli narra di una persecuzione particolarmente feroce verso i cristiani, tanto che, a causa di quella persecuzione, i cristiani della comunità che vive a Gerusalemme devono abbandonare la città. Luca sottolinea che i cristiani si disperdono fuori da Gerusalemme, andando in altri territori e regioni circostanti.
Fin qui la descrizione è drammatica: la Chiesa di Gerusalemme è un germoglio, è il primo germoglio della Pentecoste. C’erano tutti i presupposti per una sua espansione. Accade, invece, una tremenda persecuzione che determina una dispersione della comunità cristiana. Sembra, umanamente parlando, che tutto stia per finire. Ma dopo questa descrizione dolorosa degli avvenimenti, c’è una parola che san Luca aggiunge e che unisce questa parte del brano alla parte che viene dopo. La parola è: “però”.
Si apre quindi una nuova scena: i cristiani, che si sono dispersi fuori da Gerusalemme per sfuggire alla persecuzione, dovendo andare in altre regioni, proprio là portano la parola di Dio, quella parola che non sarebbe arrivata là se non ci fosse stata la persecuzione in Gerusalemme. Quel “però” è un trattato di lettura della storia dal punto di vista della provvidenza di Dio. Un fatto che sembrava assolutamente negativo diventa, in realtà, il punto di avvio di qualcosa di inaspettato, d’insperato, ma del tutto positivo. La vita cristiana, anche quella personale, è fatta di tanti, tanti “però”, dove la Provvidenza di Dio è operante sempre, anche quando a noi non pare; e la stessa vita della Chiesa è fatta di tanti “però”.
A volte sembra di attraversare dei momenti oscuri, di buio, di fallimento “però” quei momenti bui, oscuri, di fallimento, in realtà, hanno già dentro di loro l’opera di Dio, che sta preparando proprio in quel fallimento, in quell’oscurità, in quel buio qualcosa d’insperato, qualcosa di impensato. Se non ci fosse stato quel passaggio doloroso e faticoso, non ci sarebbe stato poi l’altro passaggio, pieno di gioia, di entusiasmo e di luce nuova. È sempre così! Perché il Crocifisso Risorto è sempre presente, vivo in mezzo a noi, perché il Risorto vive con la comunità cristiana e per la comunità cristiana, perché Lui non ci abbandona mai, tutti i giorni, fino alla fine del mondo, è con noi e per noi. E, dunque, c’è sempre un “però”, anche quando a noi sembra che la speranza non ci sia più, la fiducia non abbia più ragione di esistere.
Ricordo che, a un’assemblea del clero con i nostri carissimi sacerdoti, ho citato un film famoso, in cui Vittorio De Sica, il protagonista nei panni di un maresciallo dei carabinieri, rassegnato per le sue storie d’amore iniziate e mai concluse, esclama: «Per me… oramai!». No! Noi non possiamo dire mai questo! Non è una parola cristiana. Per me… “oramai”, per noi… “oramai”, per la Chiesa… “oramai”!
No! Perché c’è il “però” di Dio, che fa germogliare il nuovo impensabile dove noi non avremmo mai immaginato.
Il numero dei sacerdoti
Certo, il cammino che stiamo vivendo in Diocesi non è un cammino facile; è una fatica vivere la fede e annunciarla. Avvertiamo di diventare – o meglio, già di essere – una minoranza, quando prima eravamo abituati a essere maggioranza. Attorno a noi percepiamo un clima culturale che non è ispirato alla fede ed è piuttosto paganeggiante. Questa è la realtà! Avvertiamo una contrazione numerica, non siamo più una folla, cominciamo a essere un piccolo resto, c’è tanta indifferenza. Tutto questo è vero! Potrei passare in rassegna tutti gli elementi di fatica, di peso, di oscurità che troviamo. E tra questi ne cito uno che ci riporta al terzo punto.
Quest’anno, a febbraio, ho avuto la grazia e la gioia, insieme ai vescovi della Conferenza Episcopale Ligure, di recarmi a Roma per la “Visita ad limina”, cioè la visita che le Conferenze Episcopali regionali di tutto il mondo fanno ogni 5 anni al Papa. In occasione della “Visita ad limina”, che è durata una settimana, ogni vescovo è chiamato a preparare una relazione sullo stato della sua Diocesi. È un lavoro utile al Santo Padre e ai Dicasteri della Curia romana per conoscere le realtà della Chiesa nelle varie parti del mondo, ma è anche utile ai pastori delle singole Diocesi, perché è un modo per fermarsi a considerare la realtà così com’è e per paragonarla a quella che era 5 anni prima o 10 anni prima. È un po’ come guardare la fotografia di un percorso che la Chiesa sta facendo. Questa relazione che ho dovuto preparare mi ha aiutato a entrare meglio in certe realtà della nostra vita diocesana, ma anche e soprattutto a mettere in paragone lo stato attuale della nostra Diocesi con quello di 5 o 10 anni fa.
Un dato sugli altri. I sacerdoti diocesani 10 anni fa erano circa 135. Oggi, a distanza di 10 anni, il numero dei sacerdoti diocesani è di 75. Vuol dire che in 10 anni il numero dei sacerdoti diocesani è diminuito di 60 unità! Non solo: l’età media, 10 anni fa, era più bassa di quanto sia oggi, nel 2024. Un numero minore e un’età più elevata: questo è un dato.
I fatti vanno presi per fatti e i dati vanno accolti come dati. Bisogna pensare e ragionare sulla base dei fatti. Poi, è vero, il Signore può compiere miracoli; però è chiaro che siamo chiamati a ragionare sulla base della realtà nella quale ci è dato di vivere.
Le comunità pastorali nei vicariati
Da ormai alcuni anni, la nostra Diocesi, tenendo conto anche di questo dato preoccupante, ha intrapreso un percorso, condiviso con tante altre Diocesi in Italia. La Diocesi territorialmente risulta divisa in 10 vicariati, che possono essere anche chiamati “zone”. All’interno dei vicariati, a seconda dell’ampiezza, troviamo le comunità pastorali, ovvero i raggruppamenti di parrocchie. Si tratta di un percorso avviato già da parecchi anni con i miei predecessori.
Non vorrei essere frainteso. Non stiamo parlando semplicemente di strutture territoriali: questo modo di strutturare il territorio è al servizio di una realtà fondamentale che è la comunione all’interno della Chiesa. Non cambierebbe praticamente nulla se noi dovessimo semplicemente fare una divisione di vicariati, comunità pastorali, parrocchie se non ci fosse un cambiamento che riguarda il cuore di questa divisione, di questa struttura, che è la comunione fatta di collaborazione, di corresponsabilità, di un modo nuovo di vivere la vita insieme, di annunciare insieme il Vangelo, di essere presenti, insieme, sul territorio come comunità cristiana.
Stando ai numeri dei sacerdoti, quale sarà il prossimo futuro? Nel prossimo futuro – 5 anni, forse meno – le attuali comunità pastorali saranno le nuove comunità parrocchiali. Ci sarà un solo sacerdote nella comunità pastorale e questa comunità dovrà industriarsi con la fantasia di chi ama il Signore perché la presenza cristiana nel territorio non venga meno.
Noi non conosceremo più la presenza capillare delle comunità parrocchiali, come le abbiamo conosciute fino a ieri. È stata quella una grazia per cui il Signore ci ha condotto attraverso una strada bella, ricca, che ha dato tanti frutti, ma adesso stiamo affrontando una stagione diversa. Il Signore ci sta preparando, anzi, ci ha già messo dentro una stagione diversa, nella quale la presenza della Chiesa sul territorio è e sarà sempre più diversa. Non dobbiamo, però, spaventarci. Siamo stati, forse, abituati molto bene per lungo tempo e non possiamo dimenticare che ci sono posti in tante parti del mondo nei quali una comunità cristiana, parrocchiale, coincide già da tempo addirittura con le dimensioni geografiche e di popolazione di un nostro vicariato. E ci sono luoghi in cui andare a Messa vuol dire anche mettere a repentaglio la vita. Eppure i nostri fratelli e le nostre sorelle, che vivono in quelle condizioni, vanno ugualmente a Messa perché sanno che lì è il luogo in cui c’è l’incontro con Gesù, in cui la famiglia del Signore si riunisce.
Possiamo dire con sincerità quello che dicevano i primi cristiani martiri, quando i persecutori volevano impedire loro di radunarsi per la celebrazione eucaristica: «Non possiamo obbedire perché senza la Messa non possiamo vivere!»? Forse, il cammino che ci attende e nel quale già in parte ci troviamo, ci porterà a dire di nuovo: «Senza Messa non possiamo vivere!». Se la Messa, allora, non è proprio a portata di mano, se non è in un determinato orario, se non ha certe caratteristiche, vado perché non posso farne a meno, perché significa incontrare il Signore e fare esperienza viva della Chiesa.
In questo cammino siamo chiamati a essere insieme per trovare insieme le modalità migliori al fine di affrontare il tempo che ci attende e per essere ancora oggi, seppur in modo diverso, presenza significativa sul territorio, annunciando il Signore e il suo Vangelo con entusiasmo e con gioia.
Non possiamo avere l’atteggiamento triste e nostalgico di chi va incontro a un tramonto, ma quello gioioso e carico di speranza di chi va incontro a una fase diversa della storia, magari a una nuova aurora, nella quale il disegno dell’amore di Dio scritto per noi è tutto da scoprire. Stiamo andando, dunque, verso una comunità pastorale che diventerà una comunità parrocchiale. Questo che cosa implicherà? Implicherà una capacità nuova di sentirsi un corpo solo, un cuor solo, un’anima sola che oggi ancora fatichiamo a vivere e ad avere. Implicherà un modo di essere corresponsabili, di collaborare tra noi, di volerci bene, di essere gli uni con gli altri e per gli altri e non accanto, o peggio, senza e contro gli altri.
Come sarebbe bello se, rispondendo a una chiamata che è dentro i fatti della storia, riuscissimo a vivere una comunione rinnovata e luminosa nel nostro essere comunità cristiana! Come sarebbe bello se davvero la comunità cristiana sapesse riunirsi insieme per vivere nella gioia, nel rendimento di grazie, in una comunione più gioiosa e ritrovarsi insieme al Signore per dare fondamento, poi, al percorso cristiano quotidiano! Come sarebbe bello se, davvero, ci sentissimo tutti parte di un solo corpo, di una sola famiglia e se, all’interno di una comunità pastorale, si vivesse alla luce di questa novità! Come sarebbe bello! Sarebbe molto più bello, probabilmente, di come viviamo oggi l’esperienza della fede e della nostra appartenenza alla Chiesa!
Siamo di fronte a una sfida nella quale si pone un tema cruciale: una nuova relazione tra il pastore e i fedeli. Il pastore mantiene il suo ruolo, ma è affiancato da uomini e donne che collaborano e si sentono veramente corresponsabili della missione della Chiesa, dell’annuncio del Vangelo e della testimonianza della fede.
Ricordo che nella mia Diocesi di Genova, l’arcivescovo Monsignor Giovanni Canestri, che era stato anche qui a Tortona, incontrava spesso i Consigli pastorali. Sottolineava che nella comunità cristiana, pur essendoci un’ultima parola che spetta al vescovo o al parroco per responsabilità di servizio, prima ci sono molte parole che siamo chiamati a dirci e ad ascoltare reciprocamente. L’obiettivo è giungere a quella parola finale che sia illuminata dallo Spirito e rispondente alla volontà di Dio.
Si tratta di apprendere una nuova forma di essere insieme, dividendo le responsabilità. Veniamo da un periodo ecclesiale in cui noi pastori abbiamo spesso considerato i fedeli come meri esecutori. Ciò ha creato difficoltà nei fedeli a sentirsi e vivere da collaboratori e corresponsabili, deresponsabilizzando la comunità cristiana.
Oggi intraprendere questo nuovo cammino di comunione e collaborazione è faticoso. Noi pastori non siamo abituati ad avere intorno persone che esprimono il loro pensiero e condividono una collaborazione autentica; talvolta lo percepiamo come una minaccia alla nostra identità e alla nostra missione. D’altro canto, i fedeli spesso non sono avvezzi ad assumersi certe responsabilità, limitandosi a eseguire direttive, anche perché risulta più semplice e comodo. Tuttavia, una nuova pagina si è aperta davanti a noi.
Dobbiamo aiutarci reciprocamente con pazienza, evitando rivendicazioni sterili e polemiche inutili, consapevoli che questo è l’unico cammino possibile.
Questo percorso, frutto di una lunga gestazione e suggerito dalla realtà storica attuale, mi pare proprio che possa essere una chiamata del Signore. E non possiamo tornare indietro. La sua concretizzazione varierà da zona a zona, da vicariato a vicariato e sarà da ricercare insieme; ma la logica di fondo resta la passione per il Signore, per il Vangelo e per questo mondo, vissuta in comunione. Dobbiamo guardarci dalla tentazione di procedere con lo sguardo rivolto al passato. I problemi attuali richiedono un nuovo modo di pensare e progettare. È necessario un cambiamento interiore, di mentalità, per affrontare le sfide presenti e future.
Un aspetto cruciale di questo cammino sarà la formazione di tutti, soprattutto dei fedeli, sia sui contenuti della fede sia sullo stile di collaborazione responsabile e di servizio. Spesso abbiamo avuto persone generose ma carenti in formazione. Il servizio nella Chiesa deve essere disinteressato e incondizionato, non uno spazio di potere personale. La logica del ministero ecclesiale è quella di Gesù che lava i piedi, non di chi cerca riconoscimenti o posizioni di prestigio.
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Questi punti che ho illustrato si intrecciano e sono interdipendenti: il Signore Risorto al centro della fede; l’Eucaristia come incontro con il Risorto e forma della vita cristiana; l’importanza del sacerdozio ministeriale; il cammino delle nostre comunità pastorali nell’oggi e nel futuro.
L’invito accorato è a camminare insieme, a camminare davvero in comunione! La divisione, sempre opera del nemico, ci indebolisce e compromette la nostra testimonianza. Siamo chiamati invece a investire su una comunione vera, affettiva, fondata sulla preghiera reciproca e su scelte concrete che ci facciano procedere in una direzione pastorale unitaria. È una sfida storica e perenne, che ci riporta al cuore del Vangelo e della nostra testimonianza.
Come dice spesso il Papa, siamo sulla stessa barca della Chiesa: è fondamentale remare insieme, a tempo e nella stessa direzione, per evitare pericoli e naufragi.
Affido alle vostre mani e al vostro cuore queste riflessioni, che possiamo condividere e su cui possiamo ragionare, camminando insieme verso la direzione che il Signore ci sta indicando.