Vicino a chi soffre
La Chiesa accanto ai malati. Insieme alla dedizione e alla professionalità del personale ospedaliero, anche un sacerdote, don Pietro Sacchi, orionino, visita ogni giorno i ricoverati al “Covid Hospital” di Tortona. Prega con loro, li aiuta a comunicare con la famiglia
Un sacerdote accanto ai malati di Coronavirus ricoverati in ospedale, per portare conforto, per pregare insieme a loro, per far sentire a chi soffre la vicinanza della Chiesa. Perché nessuno è solo in questo mondo. Lo ha voluto fortemente il nostro vescovo e da sabato 28 marzo, grazie alla collaborazione del sindaco Federico Chiodi, dei Servizi Sociali del Comune nella persona della dirigente Luisa Iotti e grazie alla disponibilità di Giuseppe Guerra, commissario per l’emergenza sanitaria, il suo desiderio è diventato realtà.
Don Pietro Sacchi, 44 anni, prete orionino della congregazione tortonese, è stato scelto per svolgere un servizio straordinario di cappellania all’interno dell’ospedale di Tortona, tra i pochi sacerdoti in Italia in un “Covid Hospital”. E lì dove da settimane medici, infermieri, personale sanitario operano senza sosta e senza risparmiarsi per curare le persone contagiate, trasformando la loro professione in una vera e propria missione, oggi si può sentire anche un’altra presenza importante, anzi, fondamentale. Se è vero che «la Chiesa è un ospedale da campo», come ha detto Papa Francesco, gli uomini di Chiesa oggi non possono stare lontani da chi è costretto a letto senza poter vedere i propri famigliari, i parenti, gli amici; senza comunicare con il mondo, a causa delle pur legittime disposizioni per arginare l’epidemia. Così, dopo aver preso accordi con la direzione del nosocomio, dopo aver valutato e programmato insieme al commissario Giuseppe Guerra, modi e tempi di questa presenza, don Sacchi è entrato in quelle corsie, accolto con commozione e gratitudine da tutti.
«Il 12 marzo, ricorrenza della morte di san Luigi Orione, – ha detto don Pietro – mentre ascoltavo in tv l’appello del Santo Padre rivolto ai sacerdoti di stare vicini ai malati, ho sentito che dovevo fare qualcosa. La Provvidenza, di lì a poco, mi ha fatto arrivare la richiesta del nostro vescovo. Mi sono confrontato con lui e ho accettato con entusiasmo la sua proposta».
C’era e c’è tuttora la necessità di rispondere a una domanda impellente di chi è ricoverato: mettersi in contatto con la propria famiglia. Intanto a Tortona aveva preso il via una raccolta fondi per l’acquisto di tablet da consegnare alle persone all’interno dell’ospedale, da utilizzare proprio per comunicare con i parenti e, grazie alla generosità di molti benefattori, del gruppo Lions, di giovani amici di don Sacchi, i dispositivi sono stati distribuiti nei vari reparti. Don Pietro si è prestato a sostituire, solo temporaneamente e solo per la durata dell’emergenza, il cappellano padre Vittorio Dal Dosso al quale, per via dell’età, è stato sconsigliato di avvicinare i contagiati.
Del resto, don Sacchi, come lui stesso ci racconta, prima di entrare in ospedale, ha seguito un breve corso di formazione e ha studiato un rigido protocollo che garantisse la massima sicurezza a lui e alle persone che avrebbe incontrato.
«Ho seguito un corso di preparazione tenuto dalla direzione ospedaliera, di vestizione e svestizione perché ogni volta che entro ed esco dai reparti devo attenermi ad alcune norme ben precise. Ho imparato a usare quello che chiamano il “dispositivo” con cui mi vesto, formato da mascherina, occhiali, cuffia, tuta con cappuccio, doppi guanti e doppi calzari. Ogni giorno indosso un dispositivo nuovo che, la sera, quando esco, viene eliminato».
Ma come si svolge la giornata all’interno del “Covid Hospital”?
«La giornata inizia alle ore 8.30. Giunto in ospedale mi viene misurata la temperatura quindi entro nella sala della vestizione dove mi preparo prima di accedere ai reparti che sono Rianimazione, Medicina e Chirurgia. Trascorro l’intera mattina accanto ai malati, prego con loro, li ascolto, li aiuto a chiamare la famiglia grazie ai tablet di cui sono dotati; moltissimi mi chiedono di essere riconciliati con il Padre attraverso la confessione. Alle ore 15 celebro la Santa Messa nella cappella dell’ospedale alla quale partecipa spesso, magari solo per recitare una preghiera, il personale. Esco la sera, alle ore 18, portando con me gli sguardi e le parole riconoscenti di chi ho conosciuto».
Per ovvi motivi di sicurezza, don Pietro in questo periodo vive in isolamento. Ha lasciato il Paterno e si è trasferito in una camera della “Casa del Pellegrino”. Un sacrificio che gli permette, però, di svolgere un servizio che «lo sta facendo crescere come sacerdote e come uomo».
«Prego molto. – ha aggiunto – Dopo essere stato in ospedale ti viene sempre più forte il desiderio di pregare».
Gli ho chiesto che cosa lo colpisca di più là dentro.
«La gioia nei volti di queste persone che finalmente non si sentono sole, che possono parlare con i loro cari. – ha risposto – La loro felicità è tangibile. Sono grati al Signore, alla Chiesa, al vescovo per questa mia presenza. Le suore orionine che sono state ricoverate qui, sono riuscite a dialogare con la Casa Madre: per loro è stata una soddisfazione infinita».
Don Pietro Sacchi mi ha raccontato queste cose una mattina prima di entrare in corsia. Ho ascoltato al telefono la sua voce sempre piena di vivacità; aveva fretta di ritornare dai “suoi” malati.
«Sono stato molto segnato dalla situazione della Rianimazione. – ha concluso – Non è vero che le persone ricoverate sono soltanto anziane; ci sono anche i giovani. Non bisogna abbassare la guardia, ma continuare a seguire scrupolosamente le prescrizioni sanitarie che ci sono state imposte. Vi invito a pregare con me per chi soffre: io sono nutrito da quegli sguardi di speranza; dalla gioia e dalla vitalità che le persone ritrovano quando le avvicino. Loro mi stanno dando molto».
E poi?
«E poi non posso continuare; devo tornare là. Mi aspettano».
Matteo Colombo