Vuolsi pregare ma non tentare Iddio

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La storia si ripete: le prescrizioni dei vescovi italiani durante il colera del XIX secolo sono molto simili a quelle di oggi per il Coronavirus

Uno dei più significativi storici tortonesi, don Clelio Goggi, amava ricordare che: “Chi non conosce la storia pensa che il mondo, che gli sta attorno, sia nato con lui!”. Questo accade anche oggi, ai tempi del Coronavirus, ampliato inoltre dai social. Ci capita così di sentire di tutto, anche relativamente alle disposizioni che i nostri vescovi ci hanno dato per contenere le possibilità di contagio. Giova allora una visita ai nostri archivi, per imbatterci in misure analoghe, prese nei secoli scorsi in situazioni di epidemia. In particolare la pandemia di colera che attraversò a più riprese il pianeta nel XIX secolo presenta forti analogie con l’attuale diffusione del Covid-19.

Il cholera morbus o colera asiatico

Il colera, malattia endemica presente in alcune zone dell’India, già osservata e descritta con minuzia da Vasco da Gama nel 1490, e probabilmente conosciuta anche da Ippocrate, appariva come una di quelle infezioni esotiche mai destinate a uscire dal loro territorio. Invece assunse forma epidemica a partire dal 1817, uscendo dall’India e spargendosi nel mondo, a motivo delle politiche militari e commerciali dell’impero britannico, tanto da essere definito “malattia della rivoluzione commerciale”. Allora come oggi si presentò come un morbo sconosciuto e inarrestabile. In Europa dilagò generando sette pandemie nel corso del secolo. Sei di queste giunsero anche in Italia: 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1886 e 1893. Durante questi eventi i vescovi italiani presero misure drastiche per contenere il contagio.

A Tortona il vescovo Giovanni Negri

I quarantun anni del lungo episcopato di mons. Giovanni Negri (1833-74) dovettero confrontarsi spesso con le epidemie di colera. Le autorità civili e sanitarie lo ebbero sempre al fianco, pronto a collaborare e sostenere i provvedimenti necessari, coadiuvando ogni iniziativa sanitaria. Dal 22 luglio 1835, per ventidue volte il vescovo affidò alla tipografia Rossi di Tortona circolari riguardanti gli atteggiamenti da tenersi durante il contagio. L’epidemia del 1935 trovò impreparate le fragili strutture del Regno di Sardegna cosicché, principalmente nelle campagne, la Chiesa svolse una formidabile opera di supplenza. Spesso nei registi delle autorità sanitarie che monitorarono l’epidemia appare indicato il parroco come “medico curante” dei colerosi. Nella circolare del 12 luglio 1836 mons. Negri invita i sacerdoti a: “inculcare l’osservanza delle precauzioni sanitarie che vengono suggerite dai Signori Dottori Fisici, segnatamente quelle di tenere le chiese ben ventilate e di non protrarre troppo in lungo le funzioni, massime in ora calda”. Il 30 luglio dello stesso anno invia ai parroci, che spesso erano l’unico presidio medico, una circolare dove dettaglia una serie di precise norme igieniche e di profilassi, avute da “un’accreditata persona dell’arte medica”. Vi leggiamo con ammirazione: “siccome il cholera è un contagio così bisogna possibilmente evitare i contatti. Bisogna quindi astenersi dall’andare nei luoghi di molta frequenza. Il cibo sia minestra di riso e carne; non frutta non verdura in genere. Bando ad ogni elemento irritante ed indigesto, perché l’indigestione facilmente produce diarrea e la diarrea, quando domina il cholera, si converte facilmente in questo morbo”. Segue poi una dettagliata descrizione dei sintomi con cui si manifesta il contagio per saperli prontamente riconoscere, insieme a una serie di rimedi farmacologici con tanto di ricettario e dosi, “la profilassi da imporre ai contagiati”. Continua la circolare: “Non credo prefati consigli Le possano tornare affatto inutili. Massime se Ella si trova in una parrocchia di campagna, ove non si è molto facile l’avere il dottore per tempo”. In questo scritto sono anche indicate alcune precauzioni che i parroci devono prendere per evitare l’assembramento di fedeli, come la celebrazione delle esequie in forma privata e la limitazione, se non addirittura laddove fosse necessario, la sospensione del suono delle campane “pe’ segni funerari”. Per comprendere la portata di queste indicazioni occorre calarle in un’epoca in cui era tutt’altro che facile sospendere secolari e rigide consuetudini. In successive epidemie venne sospesa la visita pastorale in atto e vennero dispensati i sacerdoti dagli annuali esercizi spirituali.

Il vescovo Giovanni Negri

A Pavia il vescovo Luigi Tosi

Ancora più drastiche appaiono le determinazioni dei vescovi della vicina Pavia, allora nel Lombardo-Veneto austriaco, probabilmente dovute alla forte concentrazione di popolazione della città, dove il morbo vi giunse dalle terre sabaude di Lomellina e Oltrepò. L’8 agosto 1836 il vescovo Luigi Tosi, amico e maestro spirituale di Alessandro Manzoni, poneva forti restrizioni all’amministrazione del viatico: “Quando il Paroco o Sacerdote chiamato ad assistere un infermo in grave pericolo della vita non sia moralmente certo che l’infermità non abbia alcuna partecipazione o relazione col Morbo Cholera, non amministrerà il SS. Viatico senza che sia preceduto il giudizio del Medico, che assicuri non esservi alcun sospetto di questo Morbo, ma l’infermità essere di tutt’altra natura”. In quel caso il vescovo imponeva di amministrare solo i sacramenti della penitenza e dell’unzione. Ugualmente riduce drasticamente le celebrazioni, vietando le processioni: “È poi assolutamente vietata ogni altra Funzione straordinaria o Processione oltre le suddette, che non sia da Noi prescritta, e specialmente se si tratti di Chiese non ampie, alle quali concorra folla di Popolo”. Uguali misure prendeva il 16 agosto 1854 il vescovo di Lucca, il francescano lombardo Giulio Arrigoni, che per proteggere il suo popolo dal contagio decretava: “in qualche luogo siano indizi di Cholera, si proibisce lo svolgimento di processioni e la celebrazione delle Solennità religiose che attirano calca di popolo, essendo omai una verità istorica che in circostanza di contagi queste raunanze riescono alla salute pubbliche notevolissime”, sentenziando inoltre che “Vuolsi pregare ma non tentare Iddio”.

L’epidemia a Chioggia nel 1911

A Chioggia il vescovo Antonio Bassani chiuse le chiese e i conventi attigui al lazzaretto su richiesta delle autorità cittadine, per ragioni di igiene e di profilassi dal luglio al novembre 1911. La chiesa di San Domenico venne riaperta alla fine del contagio, il 17 novembre 1911.

L’epidemia non aveva permesso la celebrazione dei funerali delle vittime, quindi, per riparare a tale mancanza, venne deciso di celebrare una messa collettiva a suffragio di tutti i morti. Altri documenti testimoniano che il vescovo raccomandava ai sacerdoti di non mostrarsi ostile alle disposizioni governative, che imponevano la chiusura della chiesa.

Ancora una volta la storia, la grande maestra di vita, ci insegna che “nihil sub sole novum”.

Maurizio Ceriani

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